Fra Sogni e Valigie

Varanasi: dove la vita incontra l’eternità

Scrivo di Varanasi tre settimane dopo esserci stata. Ancora non ho trovato le parole giuste. Forse non esistono. Come descrivi un posto che ti entra nelle viscere e le rivolta? Come racconti l’odore della morte misto all’incenso, il chai bevuto a pochi metri dalle pire funebri, gli Aghori che incontri per strada come fosse normale? Non puoi. Ci provo lo stesso.

L’arrivo: quando pensi di essere preparata (e non lo sei)

Volo IndiGo da Delhi, un’ora e mezza sopra la pianura indiana. Dall’alto, Varanasi sembra una città come le altre. È quando atterri che capisci: non lo è. L’aria è diversa, più densa, carica di qualcosa che non sai nominare. Cinquemila anni di preghiere, di pire, di vita e morte mescolate hanno lasciato un’impronta nell’atmosfera stessa.

Il Radisson Hotel dove alloggiamo ci accoglie con il rituale che ormai conosco: il tikka rosso sulla fronte (quel punto sacro che ti fa sentire subito in India), la ghirlanda di calendule arancioni al collo, le mani giunte nel namaste. È successo in ogni hotel del viaggio, ma qui a Varanasi il gesto sembra più carico di significato. Come se ti stessero preparando spiritualmente a quello che vedrai.

La lobby con aria condizionata, lo staff in divisa impeccabile, il buffet breakfast dove la mattina prendo la mia omelette e il chai speziato – tutto cerca di essere un’oasi di normalità occidentale. Ma è un’illusione. Appena esci, Varanasi ti inghiotte.

I vicoli: l’inferno che porta al paradiso

Niente, assolutamente niente, può prepararti ai vicoli di Varanasi. Non sono strade, sono budelli. Stretti al punto che due persone fanno fatica a passare. Un labirinto dove si mescolano:

  • Mucche sacre che ruminano immobili nel mezzo del passaggio
  • Cani che dormono in pozze di non-so-cosa
  • Scimmie che saltano dai balconi rubando offerte
  • Venditori di tutto e niente
  • Pellegrini con sguardi estatici
  • Turisti con facce sconvolte (io ero una di loro)

Ma è l’odore che ti annienta. Non è un odore, sono mille odori stratificati: incenso, feci (di mucca, cane, umana), spezie, fiori marci, cibo fritto, decomposizione, vita. È un assalto olfattivo che bypassa il cervello e va dritto allo stomaco.

Cammino con il mio gruppo. Ci guardiamo negli occhi senza parlare. Non servono parole, c’è solo shock condiviso. Ho la tentazione di fermarmi, appoggiare la mano al muro (sarebbe un errore). Respiro dalla bocca (altro errore). Bisogna continuare. È l’unico modo: andare avanti, attraversare, non fermarsi a processare.

Poi, dopo quello che sembra un’eternità ma sono forse dieci minuti, sbuchi sul Gange. E respiri. Non aria pulita (non esiste a Varanasi), ma aria diversa. Aria di fiume, di spazio, di cielo aperto. Una boccata di ossigeno non per i polmoni, ma per l’anima.

Manikarnika Ghat: dove la morte sorride

L’alba al Manikarnika Ghat non è poetica. È cruda, reale, sconvolgente. Arriviamo che sta albeggiando, il fiume è una massa nera che scorre veloce (le piogge delle settimane precedenti l’hanno ingrossato, ci dicono, per questo niente barca per la Aarti).

Poi le vedi. Le pire che bruciano da sempre, il fumo che sale verso il cielo. Non c’è tristezza, o almeno non come la conosciamo noi. C’è una pace strana, una accettazione che noi occidentali abbiamo perso.

“This fire burning since 5000 years. Never stop. Shiva’s fire.” Cinquemila anni. Lo stesso fuoco. Mi viene da piangere e non so perché.

l fuoco avvolge i corpi. In tre ore saranno cenere nel Gange. Fine? No, dicono loro. Liberazione.

Gli Aghori: l’incontro che non dimentichi

Li incontriamo per caso (ma a Varanasi niente è per caso) in uno dei vicoli. Due Aghori, i sadhu più estremi dell’induismo. Coperti di cenere umana, con collane di ossa, occhi che sembrano vedere attraverso la realtà.

C’è paura, fascino, repulsione, tutto insieme. Uno di loro mi fissa. Non distolgo lo sguardo (non so perché, istinto). Sorride. Un sorriso che non è pazzo, non è minaccioso. È… oltre. Come se sapesse qualcosa che noi non sapremo mai.

Anche se vorrei fotografarlo non lo faccio (preferiscono non essere fotografati), passo oltre. Ma quell’incontro resta. Quella sensazione di aver toccato qualcosa di primordiale, di pre-civile, di essenziale.

La Ganga Aarti: quando il sacro diventa spettacolo

Arriviamo al Dashashwamedh Ghat un’ora prima del tramonto. Il posto è già pieno. Famiglie indiane, turisti occidentali, venditori di tutto. Il Gange è troppo alto e mosso per la vista dalla barca (maledette piogge), quindi restiamo a terra, in mezzo a centinaia di persone.

Poi inizia. Sette giovani bramini in doti rosa e arancioni, movimenti sincronizzati, fuoco che danza. È kitsch e sacro insieme. È turistico e autentico. È contraddizione pura, come tutto a Varanasi.

Ma funziona. Quando le campane suonano all’unisono, quando il fumo dell’incenso sale verso il cielo, quando centinaia di persone cantano insieme, qualcosa si muove dentro. Non devi credere per sentirlo. È energia collettiva, è migliaia di anni di ripetizione dello stesso gesto, è l’umano che tocca il divino (o quello che chiamiamo così).

Sarnath: il respiro dopo l’apnea

Il giorno dopo andiamo a Sarnath, 10 km fuori Varanasi. È come emergere dall’acqua dopo un’apnea troppo lunga. Verde, spazio, silenzio. Qui Buddha diede il primo sermone dopo l’illuminazione.

L’Ashoka Pillar è imponente nella sua semplicità. Niente ornamenti barocchi dell’induismo, solo pietra e proporzioni perfette. Respiro. Il gruppo respira.

È qui che processo Varanasi. Che realizzo cosa ho visto, odorato, vissuto. Che capisco perché Buddha cercò una via diversa dall’induismo: troppo intenso, troppo carnale, troppo tutto. Il buddhismo è sottrazione, l’induismo è addizione infinita. Servono entrambi, forse.

E capisco. Non razionalmente, non qualcosa che posso spiegare. Ma capisco che Varanasi non è sporca o pulita, bella o brutta, sacra o profana. Varanasi È. Esiste in una dimensione dove le nostre categorie non hanno senso. Dove la morte è parte della vita come inspirare ed espirare. Dove cinquemila anni sono ieri e domani è già passato.

Sopravvivere a Varanasi: quello che ho imparato

Dove dormire davvero: Il Radisson è comfort occidentale, ma sei isolato. Altri viaggiatori che hanno provato guesthouse sui ghat hanno vissuto Varanasi più intensamente. BrijRama Palace è il compromesso perfetto: lusso con vista ghat.

Come affrontare i vicoli:

  • Gruppo o guida sempre (perdersi è garantito)
  • Scarpe chiuse (fidati)
  • Fazzoletto per coprire naso/bocca quando serve
  • Non toccare muri (sono… umidi)
  • Acqua sempre in mano

Il chai salvavita: Dopo lo shock dei vicoli, il chai sui ghat è medicina. BrijRama Palace, Dolphin Restaurant, o qualsiasi banco con locali. È sicuro, è buono, è necessario.

Manikarnika Ghat:

  • No foto alle pire (rispetto e divieto)
  • Copri spalle e gambe
  • Silenzio o voce bassa
  • Se ti parlano i dom, ascolta (sanno cose)

Per processare lo shock:

  • Non resistere, attraversa
  • Parla con il gruppo/compagni
  • Scrivi la sera (o dimentichi)
  • Sarnath il giorno dopo è perfetto

Quello che Varanasi lascia

Sono tornata da tre settimane. Ancora processo. Varanasi non è un posto che visiti e basta. È un’esperienza che ti lavora dentro per mesi, forse anni.

Mi ha insegnato che la mia idea di pulito e sporco è culturale, non universale. Che la morte può essere guardata in faccia senza terrore. Che cinquemila anni di preghiere lasciano un’impronta nell’aria. Che posso sopravvivere a molto più di quanto pensassi.

Ma soprattutto, Varanasi mi ha mostrato l’India vera. Non quella delle cartoline o degli hotel di lusso. L’India che odora di vita e morte insieme, che ti assalta con tutto quello che ha, che non chiede il tuo permesso per esistere.

Non la consiglio a tutti. Se cerchi relax, spa, Instagram spot, gira alla larga. Ma se vuoi vedere quanto in profondità va la tana del coniglio dell’esistenza umana, se vuoi testare i tuoi limiti sensoriali ed emotivi, se vuoi capire cosa significa davvero “sacro” per più di un miliardo di persone, allora Varanasi ti aspetta.

Con i suoi vicoli impossibili. Con le sue pire eterne. Con il suo fiume che scorre da sempre. Con i suoi Aghori che ridono della nostra paura della morte.

Ci tornerò? Sì. Forse Varanasi è un posto dove vai una volta nella vita o infinite volte. O forse è un posto che una volta entrato non esce più. Chiedimelo tra qualche anno, quando avrò finito di digerirla.

Se mai finirò.


Varanasi fa parte del viaggio di gruppo in India che vorrei organizzare per l’anno prossimo. Non sarà facile. Non sarà comodo. Ma sarà vero. Se senti il richiamo, scrivimi.

Francesca


P.S. Mentre scrivevo questo articolo, ho realizzato che alcune esperienze sono impossibili da trasmettere. Varanasi è una di queste. Devi andarci. O starne alla larga. Non ci sono vie di mezzo.

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